DOUCE SICILE
“Allora incontro ti verranno le belle spiagge della Trinacria isola, dove pasce il gregge del sole, pasce l’armento.”
(Omero)
“…..hai visto le generose montagne siciliane coperte da vigneti. Hai bevuto a Messina, a Palermo e sull’Etna; Catania ti ha riempito il calice.”
(J.A. Morsztyn)
“Tante Sicilie, perché ? Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità….”
(G. Bufalino)
“In Sicilia abbiamo tutto, ci manca il resto”
(P. Caruso)
E’ difficile forse impossibile parlare della Sicilia o di qualsiasi cosa la riguardi senza avvertire una sorta di inadeguatezza, di lotta impari per la vastità delle particolarità che possiede ogni struttura, materia, soggetto che possa qualificarsi siciliano.
Non v’è dubbio che la millenaria storia, l’incrocio di culture che, d’oriente e d’occidente, si sono incontrate e scontrate in questa terra posta al centro del Mediterraneo, isola fra le isole, ha posto le basi della sua “condanna”: essere amata e odiata con la stessa intensità e passione.
Tutto si può dire della Sicilia tranne che possa lasciarti indifferente, distaccato, oggettivo. Nel corso degli anni sono passato da sentimenti d’odio a quelli d’amore nell’arco di qualche ora se non meno, eppure mi ritengo persona dotata di equilibrio e raziocinio.
Goethe affermò nel suo celebre diario di viaggio in Italia che “l’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. E’ in Sicilia che si trova la chiave di tutto”.
Sinceramente non so se il grande poeta tedesco abbia preso un abbaglio, questa chiave, infatti, non si è mai trovata oppure, in realtà, sia pienamente nel giusto poiché solo quando la chiave sarà trovata potremo conoscere la verità.
Direte: ma tutte queste elucubrazioni a che pro ? Il “pro” c’è, eccome. Ho sempre desiderato parlare dei vini dolci siciliani, però mi sono accorto nel tempo che non ne potevo parlare nello stesso modo di cui si parla di altri vini dolci, sia italiani che stranieri. Mai come in questo caso il genius loci è così appropriato, oserei dire esclusivo.
Non v’è dubbio che la dolcezza dei suoi vini sia “realizzata” seguendo determinate procedure come la raccolta tardiva delle uve, l’appassimento, l’aggiunta di mosto concentrato e/o di alcool, procedure che possiamo ritrovare più o meno in tutti i luoghi dove si producono vini dolci ma il plus che dà ai vini dolci siciliani quel non so che, come direbbe mia madre, è l’intreccio unico e irripetibile di natura, arte e storia dalla cui fusione esce il carattere siciliano il cui aspetto fondamentale è l’eccesso, l’esagerazione.
E’ questa la chiave di cui parla Goethe ? Non sono sicuro ma mi piace pensarlo.
D’altronde i siciliani sono null’altro che italiani elevati all’ennesima potenza, appunto esagerati: intelligenti e cretini, coraggiosi e vigliacchi, onesti e mafiosi, colti e ignoranti, ricchi e miserabili, belli e orribili, aridi e sentimentali, indifferenti e gelosi, aspri e dolci e così…… all’infinito.
Ma veniamo a noi, veniamo ai vini. Prima di tutto una strana (o forse no) osservazione: le aree DOC dei vini dolci siciliani sono dislocate esattamente (o quasi) nei tre punti o vertici del “triangolo” che dà forma e “primo” nome alla Sicilia, ovvero Trinacria, isola dai tre promontori: a Nord-Est, Capo Peloro (Messina), abbiamo la DOC Malvasia delle Lipari; a Sud-Est, Capo Passero, qui abbiamo le DOC Noto e Siracusa ed infine a Nord-Ovest, Capo Lilibeo, le DOC Pantelleria e Marsala.
Partendo in senso orario parliamo per prima della Malvasia delle Lipari, la cui zona di produzione comprende l’intero arcipelago delle isole Eolie.
La DOC Malvasia delle Lipari comprende vino bianco, passito e liquoroso. In questo ambito ci interessa parlare del passito, perché lo riteniamo, a torto o a ragione, l’espressione più vera e, comunque, migliore di questa DOC.
Questo vino è ottenuto con l’utilizzazione di due vitigni: la malvasia delle Lipari, (max 95%) di origine greca e importata sull’isola di Salina (tutt’ora la massima produttrice fra le isole Eolie), intorno al 588 a.C., e il corinto nero, anch’esso di origine greca (min 5% – max 8%). L’appassimento delle uve avviene in parte sulla pianta (vendemmia tardiva) e in parte su graticci composti da listarelle di canne, chiamati in loco cannizzi, esposti al sole o in idonei locali. La produzione che raggiungeva nel 1800 circa 10.000 hl, scomparve quasi del tutto all’inizio del ‘900 a causa della fillossera che, di fatto, determinò l’emigrazione di buona parte della popolazione poiché dedita principalmente alla coltivazione della vite. A partire dagli anni ’80 del secolo passato, grazie alla lungimiranza e al coraggio di alcuni produttori, su tutti Carlo Hauner, si è ricominciato ad impiantare nuovi vigneti, e la nascita di nuove aziende vinicole e soprattutto lo sviluppo e il miglioramento della professionalità e degli aspetti tecnico-produttivi hanno prodotto un notevole accrescimento del livello qualitativo.
Questo “vino dei vulcani”, come lo definì Guy de Maupassant, è un’autentica perla enologica, di cui la Sicilia e l’Italia non possono che menar vanto. Di colore topazio, a volte ambrato, profuma di erbe aromatiche mediterranee e di agrumi canditi, raffinato, vellutato, di sapore dolce, mellito mai stucchevole, assolutamente fine. Tradizionale è il suo abbinamento con i dolci a base di mandorla e di frutta secca o biscotti farciti di confetture e di creme, buono anche con formaggi non eccessivamente stagionati.
Di grandi aziende, nel senso qualitativo del termine, non ve ne sono molte ma data la quantità così ristretta della produzione globale, in realtà, bastano e avanzano. Non vogliamo farne una disamina esaustiva, ci basta (spero anche ai miei fratelli lettori) enumerarne tre, che a nostro esclusivo e soggettivo parere rappresentano il gotha.
Le aziende agricole FENECH e VIRGONA, entrambe del comune di Malfa e a conduzione famigliare, usano tecniche produttive sostanzialmente tradizionali, le uve sono raccolte tardivamente e lasciate ad appassire sui cannizzi per 15-20 giorni e dopo essere diraspate vengono, in modo soffice, spremute e il mosto è lasciato macerare a bassa temperatura controllata in silos d’acciaio. Segue un periodo di affinamento, mai inferiore ai 6-8 mesi, e il prodotto viene commercializzato dal 1° giugno successivo alla vendemmia.
Al vertice della produzione, e credo di avere al riguardo l’approvazione della grande maggioranza degli estimatori di questo “nettare degli dei” , vi è l’azienda HAUNER, al cui fondatore Carlo, bresciano di origine boema morto nel 1996, si deve non solo la rinascita di questo grande vino ma la sua affermazione sia in campo nazionale che internazionale. Non tralasciando del tutto le tecniche tradizionali, introdusse nuove tecniche di coltivazione e di raffreddamento durante il processo di macerazione e fermentazione del mosto, il risultato è sotto gli occhi di tutti, il suo passito SELEZIONE CARLO HAUNER ha veramente, nell’ambito dei vini dolci, ben pochi rivali.
Una domanda: in quante e quali isole del mondo, ove esistono vulcani attivi, di pari bellezza naturale, storica e archeologica si producono vini dolci di simile levatura ? Attendo risposte.
E da Capo Peloro (Messina) passiamo, in senso orario, all’altro vertice della Trinacria, ovvero Capo Passero (Siracusa), in questa zona abbiamo due vini dolci, due moscati, semi-sconosciuti ai più (tanto da essere definiti “vini fantasma”) ma che da qualche anno cominciano ad essere presi in considerazione dalla critica più attenta o curiosa: il Moscato di Noto e il Moscato di Siracusa.
La DOC Moscato di Noto è stata riconosciuta nel 1974 ma con l’ultima modifica del 2011 è stata cambiata la denominazione passando al termine più onnicomprensivo di “Noto”, in quanto comprende oltre ai vini a base di moscato bianco anche vini a bacca rossa con prevalenza del nero d’avola. La zona di produzione comprende quattro comuni in provincia di Siracusa, ossia Noto, Pachino, Rosolini e Avola, dove i terreni sono di natura sostanzialmente calcarea e/o argillosa, ma entrambe le componenti sono sempre presenti di modo che i terreni non risultano mai troppo acidi o alcalini, troppo aridi o umidi.
Come già detto sono vini molto rari, difficili da reperire, personalmente ho potuto assaggiarne due dello stesso produttore, probabilmente se non l’unico il migliore, ossia il Moscato di Noto “Moscato della Torre” e il Muscatedda dell’azienda MARABINO in regime biodinamico.
Entrambi molto buoni, il primo è un passito mentre il secondo è un “semplice” moscato. Estremamente profumati, aromatici, minerali, delicati (specie il “semplice”), certamente se la produzione fosse di una certa consistenza potrebbero fare concorrenza al più noto Moscato d’Asti. Non so quale possa essere il futuro di questo vino ma in questo caso la quantità, paradossalmente, fa o potrà fare la qualità.
Non posso dire molto di più per la DOC Moscato di Siracusa, riconosciuta DOC nel 1973 e modificata con il nuovo nome “Siracusa” nel 2011. La tipologia moscato e passito è sostanzialmente identica alla DOC Noto, la zona di produzione è l’intera provincia di Siracusa, ma ancor più della DOC sorella è difficilissimo reperire bottiglie di moscato di Siracusa. Il più noto produttore, forse l’unico, è l’azienda PUPILLO, anch’essa ha un moscato “semplice” il Pollio, elegante e raffinato, ed un altro il Solacium, ottenuto da uve sovrammaturate sulla pianta, chiaramente più complesso, opulento, con profumi intensi e persistenti. Non aggiungo altro, vale quanto già detto per la DOC Noto.
Arriviamo ora al terzo vertice della bella Trinacria, ovvero Capo Lilibeo (Trapani) in questa “zona” hanno patria due vini veramente straordinari, un passito, lo Zibibbo di Pantelleria, da molti ritenuto il “re” di questo genere di vini e l’altro uno dei vini dolci liquorosi più famosi al mondo, il Marsala.
L’isola di Pantelleria, anch’essa di origine vulcanica come le isole Eolie, è posta al centro del Mediterraneo ma l’influenza della vicina Africa è predominante, specie dal punto di vista climatico. Estati caldissime e siccitose, non di rado non piove per 4/5 mesi di continuo, continuamente sottoposta alla sferza dei venti, furiosi e a volte distruttivi, tanto da costringere i primi viticoltori ad escogitare uno “stratagemma” per rendere possibile la coltivazione della vite, ossia scavare una sorta di conca nel terreno lavico per collocarvi al riparo le piantine. Con una fava due piccioni: i grappoli, vicini al terreno, ricevendo un calore maggiore aumentano la concentrazione degli zuccheri e di altri importanti elementi. Intorno a questi piccoli appezzamenti di terreno, spesso terrazze, sono posti, sempre a protezione, muretti di pietra lavica. La pratica di coltivazione dei vigneti ad alberello, data la particolare collocazione ed “asprezza” dei terreni, è effettuata a mano con l’aiuto, al massimo, di una zappa e, per spostarsi e caricare, di un asinello, il solo in grado di inerpicarsi sui pendii scoscesi e inaccessibili dell’isola, ormai parte integrante del paesaggio pantesco.
L’uva Zibibbo ( o Moscato di Alessandria), certamente introdotta dagli Arabi durante la loro dominazione, deriva probabilmente il suo nome dalla parola araba zaibib che significa, per l’appunto, “uva essiccata”.
La DOC “Pantelleria”, istituita nel 1971, ha ricevuto l’ultima modifica nell’ottobre del 2013 e prevede (addirittura!!), ben 8 tipologie di vino, delle quali trovo importanti solo le prime due: il Moscato e il Passito di Pantelleria.
Il primo, ovviamente, è ottenuto dalla fermentazione di mosto di uve fresche, il secondo, per il quale nutriamo interesse e ammirazione, da uve sottoposte in tutto o in parte, sulla pianta o dopo la raccolta su appositi stenditoi, ad appassimento al sole.
Più di una volta mi sono chiesto quali fossero le differenze fra la Malvasia delle Lipari e lo Zibibbo di Pantelleria dal punto di vista organolettico e di qualità complessiva ? Non è facile rispondere ma provo a dare una “valutazione” per mezzo di un paragone con altri due vini, il Barolo e il Gattinara. Come ben si sa i due grandi rossi piemontesi sono stupende espressioni del “nobile” vitigno nebbiolo, ma le differenze del clima e del territorio, ed anche delle tradizioni, rendono questi vini tanto eccellenti quanto diversi: il Barolo, in genere, esprime potenza ed opulenza, il Gattinara eleganza e raffinatezza. Forse il paragone può sembrare azzardato ma io vedo bene l’accoppiata Barolo-Zibibbo di Pantelleria (potenza e opulenza) e Gattinara-Malvasia delle Lipari (eleganza e raffinatezza).
Al di là di questa piccola e giocosa digressione, il Passito di Pantelleria, nelle sue migliori espressioni, raggiunge vertici difficilmente raggiungibili da parte di altri passiti. Rispetto alla Malvasia delle Lipari i produttori e i vini di qualità sono più numerosi, fra questi, a nostro personale avviso, abbiamo scelto i passiti Martingana e Khamma di SALVATORE MURANA, il Ben Ryè di DONNAFUGATA e il Bukkuram “Padre della Vigna” di MARCO DE BARTOLI.
In questo caso non voglio entrare in disquisizioni sulla qualità e le differenze reciproche, valuto tutti questi vini “oggettivamente” eccellenti e di valore internazionale, però da un punto di vista prettamente soggettivo, e quindi opinabile, sullo scranno più alto metto il Bukkuram “Padre della Vigna”, non entro nel merito delle tecniche e dei metodi produttivi parlo solo di emozioni e, d’altronde, credo difficile potesse essere diversamente quando si conosce la storia di questo piccolo grande produttore, morto recentemente, che risponde al nome di Marco De Bartoli.
Al di là di quanto si dice e (oggi) si favoleggia sulla personalità prorompente di quest’uomo, basta osservarne il volto, duro ma sorridente, nelle fotografie sul sito web dell’azienda per vedere tutta la forza, la passione e l’amore per la sua terra e i suoi vini, ma in verità, nello stesso tempo, traspare il dolore e l’amarezza della “solitudine dei giusti” per quanto di brutto e di cattivo esiste nella amata/odiata Sicilia.
Parliamo ora del Marsala. La storia di questo vino inizia “ufficialmente” nel 1773 quando un commerciante inglese, John Woodhouse, dopo averlo bevuto e apprezzato, lo spedisce in Inghilterra non prima però di aggiungere nello stesso vino dell’acquavite al fine di preservarne, data la lunghezza del viaggio, le caratteristiche organolettiche. Il vino ottenne un grande successo, oltre che per le sue qualità intrinseche anche perché meno costoso dei vini liquorosi di Portogallo e Spagna. L’ “inizio” è glorioso ma nel corso di questi due secoli e oltre la storia e le vicende di questo prezioso vino sono state spesso ingloriose e mediocri.
E’ inutile nascondersi dietro un dito, il danno di immagine causato dai milioni di ettolitri di marsala aromatizzati o all’uovo è enorme e, forse, irrimediabile. A questo si aggiunga la crisi determinata dai gusti dei nuovi consumatori che, in genere, non amano vini di alta gradazione alcolica e il quadro è completo: da alcune centinaia di aziende produttrici di marsala, si è passati a poco più di una decina nel giro di 30 anni.
Che fare ? Domanda semplice e difficile all’un tempo ma a cui è inevitabile dare una risposta se si vuole consentire un futuro a questo vino plurisecolare.
Anche la risposta è semplice e difficile: bisogna puntare assolutamente sulla qualità esaltando le peculiarità organolettiche del Marsala, in modo da renderlo unico nel panorama dei grandi vini liquorosi.
Qualcuno ci ha già provato e , a mio avviso, c’è riuscito benissimo, parlo di due aziende: una famosissima e grande, l’azienda FLORIO (di proprietà da qualche anno della ILVA di Saronno) e l’altra, altrettanto famosa fra gli “intenditori” ( di cui sopra ho già parlato per il Passito di Pantelleria), di piccole dimensioni, l’azienda MARCO DE BARTOLI.
Nel corso di una degustazione memorabile, il BIBENDA DAY del 2005, presso l’Hotel Hilton di Roma, praticamente alla fine della stessa degustazione ho avuto la fortuna e l’onore di poter bere un Marsala di FLORIO del 1939 !!!
Ora, provate ad immaginare in che situazione fossero le papille gustative e il naso dopo ore di degustazione durante le quali ho bevuto oltre 20-25 vini fra i migliori del mondo. Ebbene portando al naso il calice in cui fu versato qualche goccia di quel nettare mancò poco che cascassi a terra, tale fu la potenza e l’intensità del profumo: né prima né dopo ho provato qualcosa di simile. L’impressione fu enorme e ancor di più la sorpresa perché, lo ammetto, avevo poca stima del Marsala.
Da quel giorno ho cominciato ad interessarmi a questo vino ed è così che ho incontrato il Marsala di MARCO DE BARTOLI ed esattamente il Vecchio Samperi.
Diciamola tutta, il Vecchio Samperi non è solo un vino: è un metodo, una via da seguire. Infatti, il grande Marco, che purtroppo ci ha lasciati, ha inteso utilizzare soltanto il metodo Soleras per la realizzazione del “suo Marsala” (fuori DOC), senza alcuna aggiunta di alcol e mistelle varie. Un “vino perpetuo”, come si dice, frutto di una colmatura di fusti di vino più vecchio con percentuali di nuovo, in modo da creare un vino che incorpori le qualità e le caratteristiche organolettiche di più stagioni e vendemmie, realizzando così un prodotto veramente unico.
Parlare e descrivere i profumi di questi Marsala mi sembra pleonastico, sono tutti i profumi conosciuti e immaginabili dei vini dolci e liquorosi ma elevati all’ennesima potenza. Ma di quanti e quali Marsala stiamo parlando ? Di simile livello, mi sbilancio, due: quelli sopra descritti.
In conclusione non posso non ritornare al prologo: ad un aforisma in particolare, quello del grande attore siciliano Pino Caruso (“In Sicilia abbiamo tutto, ci manca il resto”) e al termine che più d’ogni altro identifica l’amata ( ma spesso odiata) Sicilia, ossia l’eccesso, l’esagerazione.
Chi più della Sicilia può aspirare a diventare la regione regina del vino, dolce e non, in Italia ? Io credo nessun’altra regione, direte perché ? Perché la Sicilia, appunto, “ha tutto”: sole, terra, mare, profumi, colori, storia e tutto a iosa.
Ma l’abbondanza, l’eccesso, l’esagerazione non sempre hanno una connotazione positiva: “il troppo stroppia”, diceva mia nonna.
Per cui da una parte hai personaggi del calibro di Marco de Bartoli o di Carlo Hauner e dall’altra …………. lasciamo perdere, ma avete capito benissimo. Fin quando questa terra bellissima, la Sicilia, e l’Italia visto che ne è la metafora, isolerà o addirittura ucciderà i suoi figli migliori il futuro non potrà che essere dominato dai mediocri e dagli incompetenti, dai superficiali e dai pressappochisti, dai cercatori di profitti ad ogni costo, ma il seme del bene, del giusto e del vero non muore mai e l’eterna battaglia con il suo opposto continuerà sino alla fine dei tempi. Non è retorica, amici miei, ma semplice consapevolezza dei tempi in cui viviamo, comunque ………..
Alla salute, fratelli.
0 Comments